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"LE COOPERATIVE CASEARIE IN SARDEGNA"
LA COOPERATIVA
“SA COSTERA” DI ANELA (SS)
di Daniele
Porcheddu e Fabio Angotzi
La sub-regione del Goceano
L’economia del
Goceano[1]
è basata, da sempre, su agricoltura e pastorizia; la superficie agraria
utilizzabile, che costituisce l’80% dell’intero territorio, è quasi interamente
sfruttata dagli allevamenti ovini, bovini e suini, condotti in prevalenza allo
stato brado. Lo studio di Camba et al. (1966),
sulla base di cinque indicatori, colloca la regione agraria della montagna del
Goceano e di Alà dei Sardi tra le zone semi-pastorali dell’Isola, evidenziando
il più elevato rapporto, al 1961, nella provincia di Sassari, tra numero di
ovini e caprini e popolazione residente (coefficiente pari a 5,08 capi per
abitante)[2].
Tra l’altro, sostanzialmente, si tratta di una sub-regione interessata, tutto
sommato marginalmente, dal fenomeno della transumanza degli ovini (se non al
suo interno), mentre è, limitatamente, meta di greggi provenienti da altre
sub-regioni (tipicamente alle pendici del Massiccio del Gennargentu) (Bergeron,
1967; Idda et al., 1984).
Attualmente, il
95% della superficie agraria è adibita a pascolo e ad attività pastorali.
Si può quindi
capire come, nel Goceano, un ruolo importante dal punto di vista economico sia
ascrivibile al comparto zootecnico, che conta su un patrimonio ovino
consistente: 80.000 capi, più della metà dei quali di proprietà di allevatori
dei paesi di Benettutti, Nule e Bono[3].
L’allevamento si basa quasi esclusivamente sul pascolo naturale, poiché, anche
nel Goceano, la riforma agro-pastorale non ha prodotto evidenti mutamenti.
Nel mondo
agropastorale locale, tuttavia, non mancano esempi di capacità imprenditoriale
come testimonia il caseificio di Anela. La Latteria sociale “Sa Costera” ha
comunque avuto un avvio difficile: come in altre circostanze, burocrazia e
diffidenza verso la forma associazionistica cooperativa ne hanno rallentato il
decollo.
La nascita della Cooperativa di
Anela: un confronto con le realtà cooperativistiche circostanti: 1966-1978
La Latteria
sociale “Sa Costera”, società cooperativa a responsabilità limitata, è stata
costituita il 12 luglio 1966.
Alla Cooperativa
aderirono, già inizialmente, soci provenienti da tutti i paesi del Goceano.
Questo fatto, peraltro singolare nel panorama cooperativistico della Sardegna,
caratterizzato da un notevole grado di “campanilismo” (Gentili, 1954), sembra
apparentemente testimoniare il forte elemento identitario di tale sub-regione
storica. Tra l’altro, il nome che fu scelto per la Cooperativa denomina, in
dialetto sardo, l’intera sub-regione (nota proprio come “Sa Costera”, a
ricordarne le caratteristiche geo-morfologiche).
Secondo i dati riportati
in Pinna (2003, p.143), la Cooperativa, al 1970, risulta beneficiaria di uno
stanziamento finanziario di circa 300 milioni di lire a valere sugli
stanziamenti della legge cosiddetta sul Piano di rinascita della Sardegna
(legge 588 del 1962).
In particolare, il
finanziamento a tale iniziativa cooperativistica nel settore lattiero-caseario
(dopo che erano state ipotizzate, senza mai concretizzarsi, altre espressioni
cooperative per la medesima sub-regione, per esempio in ambito vitivinivolo)
rappresentava un “indirizzamento” ben specifico, grazie all’intervento di
influenti politici locali, degli stanziamenti previsti a favore della quarta
zona omogenea (di cui faceva parte il Goceano)[4]
dalle articolazioni del Piano stesso approvate dal Consiglio regionale della
Sardegna.
Negli stessi anni,
iniziative cooperativistiche erano in progetto anche nelle vicine località,
sempre in provincia di Sassari, di Pattada e Buddusò.
Per vari motivi,
tra cui probabilmente la preesistenza di una già non trascurabile struttura
casearia capitalistica[5],
nell’area di Buddusò, il progetto del caseificio cooperativo non prese mai vita
effettivamente.
Le aree di Pattada
e di Anela, pur essendo territorialmente abbastanza vicine, sono state
protagoniste di percorsi dissimili.
A Pattada, agli
inizi degli anni Settanta, si ebbe la fusione di due cooperative preesistenti[6];
questa fusione fu praticamente imposta come condizione per poter ottenere i
finanziamenti previsti dal Piano di rinascita della Sardegna.
Nel Goceano, la
compagine degli allevatori era caratterizzata da orientamenti politici
differenti; più precisamente erano presenti due frange: una di orientamento
cattolico, dominante, ed una, molto più vicina al mondo della sinistra. Una
tale situazione comportava non pochi ostacoli per la creazione di un’attività
cooperativa; comunque, tali impedimenti furono superati grazie all’intervento
conciliante di politici locali, dell’Etfas[7]
(l’attuale Ersat, Ente regionale di sviluppo e assistenza tecnica in
agricoltura) e delle centrali cooperative.
Come abbiamo già
detto, la Cooperativa di Anela e quella di Pattada sono territorialmente
vicine, quindi riteniamo utile un confronto dei rispettivi percorsi, anche
perché i loro periodi di attività sono sostanzialmente contestuali. Tra l’altro,
attualmente, i bacini del latte delle due cooperative si intersecano, visto che
un certo numero di allevatori di Benetutti e di Nule conferiscono il latte
presso la Cooperativa di Pattada (Campus, 2001).
È possibile dunque
esaminare i fatti salienti che hanno interessato la Cooperativa “La Concordia”,
al fine di individuare i punti d’incontro e quelli di divergenza con
l’esperienza della Cooperativa “Sa Costera”.
La Cooperativa “La
Concordia” si costituì il 18 agosto 1970 ed iniziò ad operare solamente nel
1979, proprio come la Cooperativa di Anela.
Inizialmente i
soci aderenti furono 72, ma raddoppiarono durante il primo anno d’attività[8].
La costruzione degli impianti ebbe inizio nel 1975 ma, come già detto, il
caseificio diventò operativo solo nel 1979, a causa di una lunga serie di
problemi di natura burocratica[9].
Quest’ultimo
aspetto ha caratterizzato anche la fase d’avvio della Cooperativa di Anela,
infatti, nel periodo che va dal 1966, anno della fondazione, a tutto il 1978,
la Cooperativa non svolse attività di trasformazione stricto sensu. Tuttavia, al fine di mantenere la coesione tra
coloro che avevano aderito all’iniziativa, si decise di raccogliere
sistematicamente il latte ovino da tutti i soci e di conferirlo alla
Cooperativa casearia di Orune[10].
Malgrado alcune
similarità, l’esperienza cooperativistica di Anela ha sicuramente radici
storiche meno profonde di quella vissuta a Pattada.
A Pattada,
infatti, si ricorda ancora un’esperienza pionieristica di impresa cooperativa
che si fa risalire ai primi decenni del secolo appena trascorso (Campus, 1936,
pp.12-13) e che ha lasciato evidenti tracce anche dal punto di vista
linguistico nella parlata locale, visto che, dopo la sua scomparsa, l’impresa
capitalistica di trasformazione che le succedette continuava ad essere chiamata
“sa cooperativa”.
Per il vero,
esperienze cooperative è dato di riscontrare in passato anche nel Goceano, ma
esse avevano prodotto più che altro conseguenze negative nell’immaginario
collettivo degli abitanti di questa sub-regione[11].
Infatti, già nel 1954, era sorta a Nule una cooperativa tra pastori che non
ebbe molta fortuna, ma anche più indietro nel tempo, precisamente subito dopo
la prima guerra mondiale, si registrò la nascita di tre latterie sociali, di
cui una proprio ad Anela e le altre due nei vicini paesi di Bono e Benetutti
(Campus, 1936, p.13).
Anche la scelta
localizzativa della Cooperativa di Anela riflette una serie di opportunità e di
vincoli (di natura istituzionale, ma non solamente)[12].
Tra le diverse
ragioni della scelta, prima fra tutte si può ricordare il fatto che quest’area
si trova in posizione centrale, dal punto di vista logistico e dei servizi,
rispetto ai vari paesi del Goceano.
Questa centralità
si accentuò in seguito alla realizzazione della strada a scorrimento veloce
Abbasanta-Olbia, disposta quasi parallelamente al corso del Tirso e tracciata
seguendo l’antico percorso “Caminu de sos Romanos”[13],
che collega in modo più agevole i nove paesi del Goceano tra loro. Tale area,
inoltre, come risulta da diverse interviste, rappresentava anche una sorta di
“baricentro politico”, in quanto «metteva d’accordo l’orgoglio individuale» di ciascuno dei nove paesi del Goceano.
Del nucleo
fondatore facevano parte Sebastiano Fenu, come presidente, e Salvatore Campagnani,
vicepresidente; entrambi restarono in carica fino al 1981, cioè fino al
regolare avvio dell’attività di trasformazione.
Dato
l’orientamento politico di tali figure, la configurazione dell’organigramma ha
sicuramente il senso di una mediazione politica che perdura, sia durante gli
anni della fase preparatoria, che nel corso della prima fase di avvio della
produzione casearia, assicurando una sorta di completa rappresentanza degli
schieramenti politici locali.
Forme di
compromesso analoghe si registrano anche nell’esperienza cooperativa di
Pattada, infatti, il presidente, come figura super partes, fu individuato in un liberale “storico”, mentre i due
vice-presidenti, espressione di opposte vedute politiche, e i componenti del
consiglio d’amministrazione vennero individuati in modo tale da dare
rappresentanza ai soci di Pattada, di Ozieri e di Nughedu San Nicolò (cioè i
paesi rientranti nel bacino del latte “naturale” della Cooperativa).
A questo punto,
però, è opportuno chiedersi, al di là delle evidenti opportunità di natura
istituzionale (come una legislazione regionale estremamente favorevole alla
nascita di cooperative pastori nel comparto caseario)[14],
quali ulteriori motivazioni locali abbiano favorito la nascita della
Cooperativa di Anela, che costituisce ancora oggi la più importante presenza
industriale nella sub-regione del Goceano.
Secondo uno schema
ricorrente (Bussa, 1978), anche in Goceano, alla metà degli anni Sessanta, si
assisteva ad un contesto di sproporzionato potere dei cosiddetti “industriali”[15]
nei confronti degli allevatori locali, nelle fasi di contrattazione del prezzo
del latte ovino. Tra l’altro, come ben descritto da Bussa (1978) e da Lei-Spano
(1922), gli industriali, attraverso il sistema della caparre (indispensabili
spesso per pagare gli affitti dei pascoli), potevano in sostanza “vincolare”
pesantemente i pastori da un punto di vista finanziario, visto che in Sardegna,
in genere, non vi è coincidenza tra proprietà della terra e proprietà del
gregge[16].
Il bacino latte,
nel quale opererà successivamente la Cooperativa “Sa Costera”, infatti, si
divideva tra diversi “industriali” della stessa sub-regione o di sub-regioni
limitrofe: i Tanda di Burgos, i Pinna di Thiesi, i Pericu di Ozieri e altri
minori.
Anche in questa
cornice sembra essere plausibile far riferimento alla dinamica che porta gli
allevatori ad integrarsi verticalmente a valle, lungo la filiera, controllando
ulteriori fasi del sistema del valore connesso alla produzione-trasformazione-distribuzione
del latte ovino, in termini di reazione
a meccanismi di remunerazione della materia prima (il latte ovino, appunto)
poco favorevoli per il pastore[17].
Tuttavia,
riteniamo che, probabilmente, il grado di dipendenza (in sostanza il livello di
indebitamento dei pastori locali nei confronti degli industriali) non fosse
comunque particolarmente evidente in questa sub-regione (se rapportato ad
alcune sub-regioni limitrofe, come il Marghine, per esempio), data la consistente
rilevanza in Goceano di pascoli aventi carattere demaniale e, quindi, della
persistenza di condotte connesse al godimento collettivo delle terre. In
Goceano, in effetti, attualmente, circa 1/6 dell’intera superficie
sub-regionale è costituita da aree di proprietà demaniale, e ciò rappresenta un
retaggio di vicende storiche risalenti al XIX° secolo. Sarebbe anche
interessante testare tale ipotesi in termini statistici, valutando se il grado
di adesione dei soci alla nascente Cooperativa “Sa Costera” nei diversi comuni
della sub-regione considerata possa essere associato negativamente alla
consistenza di pascoli demaniali nel territorio comunale.
Per il vero, il
fenomeno della rilevante presenza di terreni demaniali è stato riscontrato come
particolarmente intenso anche con riferimento a Pattada e alla sua sub-regione
di appartenenza (Idda e Nuvoli, 1981)[18].
Come avvenuto in
altri contesti (Bussa, 1978), tuttavia, e diversamente da quanto riscontrato
con riferimento alla caso della Cooperativa “La Rinascita” di Onifai (cfr. il
capitolo sesto di questo stesso volume), un ruolo potremmo dire di
“catalizzatore” delle spinte cooperativistiche locali deve essere attribuito
non ad un pastore, ma ad un personaggio appartenente alla classe borghese,
proprietario di terre e di bestiame, che diventerà, tra l’altro, il primo presidente
della Cooperativa “Sa Costera”.
L’inizio dell’attività di
trasformazione e i primi problemi di commercializzazione: 1979-1995
Il 12 gennaio del
1979, dopo circa tredici anni dalla sua fondazione, la Cooperativa inizia
effettivamente l’attività di trasformazione del latte.
I litri di latte
lavorati durante il primo anno di attività furono solamente 491.000[19],
ma la quantità trasformata, in soli sei anni, si attesta su valori intorno ai 3
milioni di litri.
Questa
progressione[20]
evidenzia, da una parte, il progressivo superamento degli inevitabili problemi
di natura produttiva, connessi all’intrapresa di una qualsivoglia attività di
trasformazione, dall’altra, dimostra il consenso in termini di nuove adesioni
di soci conferitori all’interno del bacino del latte della Cooperativa.
Nei primi anni
Ottanta, infatti, il prezzo che i “privati” pagavano all’allevatore per un
litro di latte, era di circa 420 lire; l’inizio della produzione della
Cooperativa vide, invece, un innalzamento del prezzo di 120 lire al litro,
questo vantaggio monetario di cui godevano i soci servì ad attirare evidentemente
quegli allevatori che si erano mostrati inizialmente scettici nei confronti
della cooperazione e che in un primo momento non avevano aderito. La
Cooperativa “Sa Costera”, infatti, diventa progressivamente una delle “colonne
portanti” di un’economia che, come quella del Goceano si può definire a
prevalente carattere agro-pastorale.
Di questo elemento
sembra tenere conto ormai anche l’Ersat che in una relazione tecnica illustrata
a Bono nel 1983, indica il potenziamento della Cooperativa come una delle
priorità della modernizzazione dell’assetto agro-pastorale dell’intera
sub-regione (La Nuova Sardegna, 5 novembre 1983)[21].
Dal punto di vista
del portafoglio prodotti, si registra una connotazione iniziale quasi
monoculturale orientata verso il formaggio Pecorino romano (peraltro
attenuatasi, almeno in parte, attualmente).
A partire dal 1968
la Cooperativa di Anela, similmente a quella di Pattada, decide di aderire alla
cooperativa di secondo grado “Consorzio latterie sociali Sardegna”[22]
(che contava in quel momento una base composta da una trentina di imprese
cooperative), già ricordato (con le sue alterne fortune) illustrando il caso
della Cooperativa “La Rinascita” di Onifai. Questo rapporto di “dipendenza”
nella fase di commercializzazione, iniziato comunque, effettivamente, solo a
partire dall’annata 1979-1980[23],
viene ad interrompersi, di fatto, a partire dal 1990 a causa delle crescenti
difficoltà gestionali del Consorzio stesso[24].
Il motivo della
scomparsa del Consorzio è probabilmente dovuto al fatto che i prezzi di
trasferimento del formaggio dalle cooperative al Consorzio stesso erano troppo
elevati, date le condizioni di mercato; di conseguenza, il Consorzio non
riusciva a vendere, le produzioni casearie, successivamente, ad un prezzo che
gli permettesse di avere margini di realizzo sufficienti a coprire le spese di
gestione.
Sostanzialmente,
nel lasso di tempo dal 1990 al termine del periodo da noi esaminato (il 1995),
la Cooperativa si avvale di tre canali di distribuzione: a) canale lungo, che
prevede il ricorso al grossista (non necessariamente italiano, anzi, in questa
fase si rafforzano i legami con grossisti olandesi), b) ricorso ad utilizzatori
industriali (si tratta, in specie, di imprese americane che impiegano il
pecorino romano grattugiato, per miscelarlo ad altre tipologie di formaggi), c)
canale diretto, costituito dallo spaccio aziendale, attiguo agli stabilimenti
di produzione e deputato alla vendita di pecorino sardo, ricotte e altri
prodotti caseari[25].
A partire dal
1983, la Cooperativa di Anela deve affrontare i riflessi di una profonda crisi
del mercato del Pecorino romano, definita questa volta non di natura ciclica,
quanto di tipo strutturale, e connessa alla sovrapproduzione di tale tipo di
formaggio.
Si stima, in
particolare, che, a livello aggregato, lo squilibrio dell’offerta rispetto alle
capacità di assorbimento della domanda di Pecorino romano si aggirasse intorno
al 20-25% (Idda et al., 1984). Le
nostre elaborazioni a livello aggregato su dati del Consorzio di tutela del
Pecorino romano evidenziano, nel passaggio dall’annata casearia 1982-1983 a
quella 1983-1984, un incremento della produzione pari al 34%, mentre,
contestualmente, dal 1982 al 1983, l’export di tale tipologia di formaggio fa
registrare un calo del 15% circa. Negli anni immediatamente successivi, a
fronte di una certa ripresa delle esportazioni, si assiste a incrementi più che
proporzionali dal punto di vista delle produzioni[26].
In parte, tali
difficoltà sono state attutite dal ricorso, da parte delle Amministrazioni
regionali e del Consorzio di tutela del pecorino romano, all’Aima (Azienda per
l’intervento nel mercato dei prodotti agricoli) che ha gestito un intervento
pubblico di ammasso di produzioni di Pecorino romano in misura pari a circa la
metà delle eccedenze ricordate sopra (in sostanza circa 25.000 quintali di
prodotto remunerate a 7.500 lire al Kg, cfr. Idda et. al., 1984).
L’esame della
remunerazione per litro di latte conferito e dell’andamento del numero di soci
ci portano a pensare che la Cooperativa abbia ben attutito gli effetti della
crisi in parola.
Fino al 1990 i
maggiori conferitori sono i soci dei comuni di Benetutti e Nule, in eguale
misura, e Bono. In questi anni la Cooperativa conta circa 350 soci e 4 miliardi
e mezzo di lire di fatturato (pari a circa 2,3 milioni di euro) ed è in grado,
inoltre, di garantire l’assistenza veterinaria alle aziende associate grazie
all’attività svolta dall’Ara[27].
Spinte centrifughe nella base
sociale tentativi di razionalizzazione della funzione commerciale della
Cooperativa: 1996-2002
Sul finire del 1995, la Cooperativa partecipa alla fondazione, congiuntamente
ad altre cooperative, del Consorzio Sardinian Coop Direct[28].
Questo Consorzio si occupa della commercializzazione di una parte del
formaggio Pecorino romano, che rappresenta ancora il 90% dell’intera produzione
della Cooperativa[29].
Complessivamente, però, la quota di Pecorino romano che la Cooperativa affida
al Consorzio per la commercializzazione è abbastanza contenuta, ed oscilla tra
il 20 e il 25% della quantità prodotta.
Questo dato fa sì che le politiche di commercializzazione della
Cooperativa Sa Costera si discostino in misura evidente da quelle adottate
dalla vicina Cooperativa di Pattada che, in seguito all’adesione al Consorzio
Agriexport, affida gran parte del suo prodotto a questa organizzazione (Campus,
2001)[30].
Tra l’altro, dalle interviste condotte in azienda è emersa
l’inesistenza di vincoli di conferimento al Consorzio Sardinian Coop Direct. In
virtù di questa autonomia in fase di commercializzazione, le vendite di
Pecorino romano seguono sentieri diversi dettati dalla convenienza
congiunturale. In altre parole, alla fine del periodo di stagionatura del
Pecorino romano (cinque mesi), a seconda delle offerte provenienti dal mercato
e dal Consorzio, si decide se vendere a quest’ultimo o al primo in base a chi
offre il prezzo migliore.
Dunque, volta per volta o, come dicono gli addetti ai lavori,
“contenitore per contenitore”, si confrontano i prezzi e si sceglie il canale
di commercializzazione più conveniente[31].
Il Pecorino romano viene prodotto da dicembre a luglio, ma non necessariamente
viene venduto tutto alla fine dei cinque mesi di stagionatura. Infatti, se la
Cooperativa non trova il cliente che offre un prezzo soddisfacente, adotta una
logica attendista e, di conseguenza, si procede a “bloccare” la maturazione del
formaggio, mettendolo sottovuoto. Nel caso si decida di vendere il prodotto
senza coinvolgere il Consorzio, ci si affida a pratiche di commercializzazione
e conoscenze dirette degli acquirenti nord americani o dei grossisti olandesi,
sedimentate in tanti anni di attività (in specie nella fase finale del periodo
descritto nel paragrafo precedente).
Sono anche
evidenti le ripercussioni sulla composizione del portafoglio prodotti della
Cooperativa (sbilanciato inevitabilmente verso formaggi a lunga conservazione
come il Pecorino romano) derivanti dalla logica attendista-opportunistica, in
fase di commercializzazione, descritta sopra.
Una parte residuale del portafoglio prodotti (pari a circa il 10%
dell’intera produzione), comprende, oltre al formaggio Sandalio e al Pecorino
sardo, formaggi spalmabili e ricotta destinati ai mercati locali; verso questi
ultimi è indirizzata anche la produzione di formaggi vaccini tipo peretta.
Questa caratterizzazione quasi monoculturale del portafoglio prodotti ha
“sensibilizzato” l’economia della Cooperativa alle alterne vicende che hanno
interessato negli ultimi anni le esportazioni di Pecorino romano (riduzione dei
premi all’export e variabilità del tasso di cambio lira versus dollaro e, successivamente,
euro versus dollaro); l’esame dei bilanci aziendali, tuttavia, mostra nel
complesso una buona tenuta del fatturato mediamente registrato negli anni dal
1996 al 2000 (ed ascrivibile per almeno l’80%, in media, al Pecorino romano);
pur in un contesto di variabilità, parrebbe quindi che il deprezzamento della
lira nei confronti del dollaro in quegli anni abbia esercitato un effetto più
che compensativo rispetto agli effetti della riduzione delle restituzioni
all’export[32].
Attualmente, il numero dei soci oscilla intorno alle 350 unità (un numero
circa cinque volte superiore a quello registrato nei primi anni di attività di
trasformazione)[33]
provenienti da tutti e nove i paesi del Goceano, ma anche da paesi di
sub-regioni limitrofe quali Sarule, Osidda e Fonni (località della provincia di
Nuoro) che allevano le proprie greggi nei territori della zona. Il 1997 segna, tuttavia, un
delicato momento di inversione del fenomeno di ampliamento della base sociale
della Cooperativa, registrandosi, infatti, un decremento numerico di circa 50
soci (L’Unione Sarda, 14 agosto 1997), con una perdita di materia prima
stimabile in circa 800.000 litri di latte[34].
Questo episodio, date le motivazioni raccolte nel corso di alcune interviste[35],
potrebbe anche evidenziare la vulnerabilità della base sociale dinanzi ad un
crescente tasso di eterogeneità al proprio interno (quasi inevitabile, in un
contesto caratterizzato dall’ampliamento della stessa base sociale e
dall’afferenza di allevatori provenienti da sub-regioni limitrofe)[36].
In questo senso, l’episodio potrebbe essere segnaletico di spinte centrifughe
che potrebbero incrinare gli equilibri storicamente consolidatisi nell’impresa
che stiamo considerando.
Hind (1999)
sostiene che sia possibile individuare un ciclo di vita della cooperativa in
cui ciascuna fase si caratterizza per un diverso livello di coerenza tra gli
obiettivi dei soci e che, nelle fasi di maturità, la cooperativa tenda a
perseguire gli obiettivi del management anziché quelli dei soci. Data la sostanziale
coincidenza, nelle cooperative casearie sarde, tra amministratori e management
(sono eccezioni le cooperative che presentano in organigramma dirigenti
professionisti), è evidente, seguendo il ragionamento di Hind (1999), che
possano sorgere contrasti anche molto accesi tra fazioni per “esprimere” le più
alte cariche amministrative, poiché ciò avrà evidenti riflessi sugli obiettivi
che la Cooperativa tenderà a perseguire in futuro[37].
Tra l’altro, ad aggravare il contesto di eterogeneità di cui
stiamo discutendo, l’esame delle caratteristiche delle aziende zootecniche che
afferiscono al bacino latte della Cooperativa mostra evidenti segnali di
“dualismo”: da una parte, un certo numero di aziende moderne (dotate di
ricoveri razionali per il gregge, di energia elettrica, di acqua potabile, di
mungitrici, di tanks refrigerati e di una facile raggiungibilità con mezzi
motorizzati), dall’altra, una parte consistente di aziende ancora gestite
secondo modalità che potremmo definire “tradizionali” (per non dire
irrazionali)[38].
È interessante anche notare che gli allevatori interessati dall’episodio
appartenevano a paesi “di confine” rispetto alla regione storica della
Cooperativa (cioè il Goceano) e presentavano (almeno teoricamente) una
pluralità di opzioni di conferimento verso altre realtà produttive
(tipicamente, verso la già più volte ricordata Cooperativa casearia di Pattada)[39]. Tali
allevatori “di confine”, in un eventuale contesto di malcontento per le scelte
gestionali, possono essersi rivelati maggiormente sensibili all’esercizio
dell’opzione exit piuttosto che di
quella voice (secondo la tradizionale
distinzione di Hirschman, 1970)[40].
Da un punto di vista produttivo, inoltre, il discorso relativo
all’ampiezza della base sociale e della quantità di latte complessivamente
conferito nel corso dell’annata, è legato a doppio filo a quello
dell’efficienza della fase di trasformazione del latte in formaggio.
Nonostante, nel caso che stiamo studiando, si sia raggiunta fin dall’inizio
dell’attività una dimensione intercomunale del bacino latte (cosa che non
sembra essere avvenuta, se non abbastanza di recente, per quanto riguarda la
Cooperativa di Pattada cfr. Idda e Nuvoli, 1981, p.215; Campus, 2001), anche la
Cooperativa di Anela evidenzia, attualmente, i “canonici” (per le cooperative
casearie sarde) problemi di sottoutilizzazione degli impianti di trasformazione
(Benedetto et al., 1995; Setzi e
Antoniacci, 1988). Si è rilevato, infatti,
che gli impianti della Cooperativa Sa Costera potrebbero trasformare fino a
8.000.000 di litri di latte, invece ne trattano negli ultimi anni, mediamente,
circa 6.000.000[41].
Inoltre,
dall’analisi della curva di lattazione degli allevamenti del bacino latte della
Cooperativa, si desume un insoddisfacente sfruttamento degli impianti, che non
ottengono materia prima nei mesi compresi tra agosto e novembre. Tutto ciò può
essere compreso meglio osservando i coefficienti d’utilizzazione degli impianti
(riferiti all’annata 2000-2001) espressi nella tabella 7.1[42]
e relativi, rispettivamente, all’utilizzo durante l’intera stagione, durante
l’arco di 180 giorni di attività e nel mese di massima produzione (che nel caso
della Cooperativa che stiamo analizzando risulta marzo).
Tab.
7.1. Coefficienti di utilizzazione degli impianti cooperativi (annata
2000-2001)
Latte
trasformato nell’intera annata (litri)
|
Latte trasformato
in 180 giorni (litri)
|
Latte trasformato
nel mese di punta (litri)
|
Capacità
degli impianti per 6 h e 40’ di lavoro giornaliero (litri)
|
Coefficiente
d’utilizzazione degli impianti riferito a:
|
Durata
della stagione di lavorazione
|
180
giorni di lavorazione
|
Mese
di punta
|
|
6.293.894
|
5.554.407
|
1.164.652
|
54.000
|
48.56%
|
57.14%
|
71.89%
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
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|
|
Fonte: Nostre
elaborazioni su dati aziendali.
I coefficienti di
utilizzazione calcolati, in realtà, rappresentano un valore medio valutato
sugli impianti operanti nelle varie linee di trasformazione del latte ovino
nelle varie tipologie di formaggio, ciò vuol dire, in pratica, che per certe
linee di produzione tale situazione può risultare meno grave che per altre.
Ammettendo una tradizionale forma ad “U” della curva delle economie di
saturazione di impianto è facile capire, anche se non siamo in grado di valutare
la pendenza della curva nei vari punti per l’impresa che stiamo analizzando,
quali ripercussioni sul conto economico possa avere un grado di utilizzo medio,
pari a meno del 50% dell’intera capacità produttiva disponibile, che si
collochi nel tratto decrescente di tale curva (una stima della curva delle economie
di saturazione delle imprese cooperative casearie sarde, riferita al periodo
1984-1986 è riportata in Appendice 1 al capitolo)[43].
Il contesto descritto persiste
anche dopo che, a seguito della direttiva Cee, recepita nel 1997, la
Cooperativa ha beneficiato di un finanziamento per il rimodernamento o
sostituzione d’impianti obsoleti al fine di avere i necessari requisiti
igienico-sanitari per la manipolazione e la trasformazione del latte.
Sotto il profilo strategico,
la situazione appena descritta apre all’impresa Cooperativa: a) una opzione di
ordine quantitativo, b) una soluzione di tipo qualitativo, c) una risposta di
natura “ibrida”.
La prima opzione implica una
campagna di persuasione nei confronti di ulteriori allevatori (all’interno
della stessa sub-regione o nell’ambito di sub-regioni limitrofe) nel tentativo
di ampliare la base sociale (con il rischio, tuttavia, di innescare pericolose
spinte centrifughe e problemi di governabilità della Cooperativa, connessi al
presumibile incremento del grado di eterogeneità della base sociale della
stessa)[44].
La seconda opzione, invece,
richiede uno sforzo ulteriore di sensibilizzazione della base sociale verso
forme razionali di allevamento (con tutte le implicazioni evidenti in termini
di incremento della quantità di latte prodotto per capo ovino, di numero di
ovini per azienda zootecnica[45], di
smussamento del carattere di stagionalità del conferimento, per non
considerare, poi, i riflessi in termini di innalzamento della qualità della
materia prima conferita[46]), tale opzione,
evidentemente, implica, oltre ad evidenti capacità di mediazione della
Cooperativa stessa, anche il ricorso alla consulenza specializzata dell’Ara
(come già in parte sta accadendo) e dell’Ersat.
La terza opzione, infine, è di
tipo “misto” poiché implica sforzi in entrambe le direzioni (in questa
direzione sembra andare, per esempio, l’iniziativa dell’istituzione di un fondo
che potrebbe ben presto permettere alla Cooperativa di erogare prestiti ai soci
conferitori al fine di razionalizzare la conduzione della propria azienda o
addirittura al fine di acquistare la proprietà del fondo sul quale insiste la
stessa azienda, con gli evidenti incentivi successivi, per l’allevatore, ad
effettuare miglioramenti fondiari).
[1] Il
Goceano è una regione storica ubicata all’incirca al centro della Sardegna, con
i confini orientale ed occidentale pressoché equidistanti dalle rispettive
linee di costa dell’Isola. I comuni che vi appartengono sono ben 9: Anela,
Benetutti, Bono, Bottida, Bultei, Burgos, Esporlatu, Illorai e Nule.
[2] Al
1961, inoltre, tale rapporto è il quarto, in ordine di grandezza decrescente, a
livello regionale (Camba et al., 1966).
[3] A
Bultei, Benettutti e Illorai, invece, è concentrato l’80% dei quasi 10.000
bovini.
[4]
L’articolazione della programmazione degli interventi a livello di “zone
omogenee” era un principio già affermato nel Rapporto conclusivo sugli studi per il Piano di rinascita redatto
nel 1959 da un Gruppo di lavoro che raccolse gli studi, realizzati nell’arco di
quasi un decennio, da una Commissione di studio per l’analisi e la
valorizzazione delle risorse della Sardegna (Maurandi, 1998, p.272). Con legge
regionale n.7 del 1962 si istituirono effettivamente le zone omogenee, così
come del resto previsto dalla legge nazionale sul Piano di rinascita della Sardegna.
Il numero di zone omogenee individuato sulla base di indicatori economici e
storico-sociali fu di ben 15.
[5] Nel
1963, infatti, viene fondata a Buddusò, in provincia di Sassari, la società di
fatto Sardaformaggi (poi trasformata in società per azioni e, attualmente, la
seconda impresa casearia della Sardegna, in termini di fatturato) (Nieddu,
2001). Da interviste condotte ad allevatori anziani dell’area di Buddusò è
possibile rilevare il clima di fiducia ed i buoni rapporti con la Sardaformaggi,
ciò che può aver depotenziato le spinte cooperativistiche nella zona, le quali,
com’è noto, hanno storicamente in Sardegna, in non pochi casi, una connotazione
di “reazione” nei confronti degli industriali caseari (Bussa, 1978).
[6]
La cooperativa derivante dall’accorpamento venne chiamata “La Concordia” a
ricordo del gesto di unificazione.
[7] Ente
di trasformazione fondiaria e agricola in Sardegna.
[8]
Nel corso dell’esercizio 2001-2002 si contano 358 soci conferitori.
[9] Tale
intervallo di tempo (dal 1970 al 1979) non è però omogeneo dal punto di vista
delle intenzioni dei soci della Cooperativa; infatti, nella prima fase, diciamo
fino al 1975, è possibile notare una certa prudenza che porta la Cooperativa
stessa a non trasformare il latte direttamente, limitandosi esclusivamente a
raccoglierlo e ad esercitare successivamente un certo peso contrattuale
(peraltro assi limitato) nei rapporti verticali di filiera. Nella seconda fase,
fino al 1979, pur essendovi una manifesta intenzione dei soci ad intraprendere
la trasformazione diretta, al fine di ottenere più favorevoli condizioni di
remunerazione della materia prima conferita, manifestarono il loro effetto una
serie di ostacoli burocratici all’inizio delle attività. La prima fase
descritta ricorda molto da vicino le vicende dei primi anni di vita della
Cooperativa “La Rinascita” di Onifai (descritte nel capitolo sesto di questo
volume).
[10] In
sostanza, come previsto dall’art.2532 comma terzo del Codice civile, la
Cooperativa “Sa Costera” diviene socio conferitore di un’altra cooperativa. La
Società Cooperativa Pastori di Orune (NU), fondata nel 1937, possedeva in
effetti, a partire dal 1956, propri impianti di trasformazione, con
coefficienti di utilizzazione della capacità produttiva, al 1970, pari a circa
il 50% (Pinna, 2003, p.143).
[11]
Questo fenomeno non è isolato se si presta fede a quanto scritto da Pinna
(2003, pp.127-128): «Il fallimento di molti caseifici e latterie sociali
consolidò, con le conseguenti delusioni e i relativi danni, la naturale e
istintiva diffidenza dei pastori e rafforzò il potere monopolistico dei gruppi
industriali».
[12]
Materialmente, la realizzazione e l’esecuzione del progetto furono curate
dall’Etfas.
[13]
Secondo il linguista dell’Università di Sassari Massimo Pittau, questo toponimo
indica una tracciato di strada, citato anche nell’Itinerarium Antonini (redatto all’epoca dell’imperatore Caracalla,
211-217 d.C.), che collegava Cagliari a Olbia attraversando tutto il massiccio
montano della Sardegna centro-orientale. Proprio lungo questo tracciato si
trovava la mansione, presidiata da soldati romani, di Caput Tyrsi, cioè “Sorgente del Tirso”, localizzata nell’altopiano
di Buddusò, a metà strada rispetto a Bitti, nella zona detta Romantzesu. Pittau esclude si tratti di
una strada romana vera e propria, dato che non è mai stato trovato alcun resto
archeologico o miliario; si tratterebbe, in realtà, di una serie di tratturi
naturali, di cui l’Itinerarium si
limiterebbe ad indicare il tracciato.
[14] In
un’intervista, di recente, un importante imprenditore caseario di una
sub-regione limitrofa a quella esaminata si è espresso, descrivendo tale
momento evolutivo della filiera lattiero-casearia della Sardegna, dicendo che:
«(…) si è registrata una costituzione a “pioggia” di cooperative (…) quasi in
ogni comune (…) in modo irrazionale e disordinato, sovrapposte spesso nella
stessa “zona omogenea”, nella quale in non pochi casi operavano già strutture
di tipo “privato” che saturavano ampiamente la domanda» (cfr. Nieddu, 2002).
[15] Si
tratta in sostanza dei proprietari di imprese capitalistiche di trasformazione
del latte ovino. Negli studi sulla filiera lattiero casearia ovina della
Sardegna, dal punto di vista terminologico, si contrappongono espressioni come
“industriali” o “privati”, da una parte, e cooperative, dall’altra.
[16] In
realtà, è probabile che il sistema delle caparre, in un contesto iniziale di
sviluppo della filiera (per una periodizzazione cfr. Benedetto et al., 1995; cfr. anche il primo
capitolo di questo volume), in cui si registrava una sproporzione della domanda
rispetto all’offerta di latte ovino, possa aver avuto un ruolo assai positivo
per le aziende pastorali sarde: «I pastori venivano incoraggiati a cedere il
latte a prezzi che allora erano remunerativi, mediante caparre con cui essi
potevano anticipatamente pagare gli affitti; l’industria in pochi anni prese un
enorme e proficuo sviluppo e la Sardegna ne profittò per accrescere e
migliorare i suoi armenti» (Lei-Spano, 1922, p.321, cit. in Idda et al., 1984).
[17]
Tra l’altro, lo stesso sistema di raccordo con alcuni industriali (per esempio
i Pinna di Thiesi, nella sub-regione del Mejlogu) aveva consentito agli stessi
pastori di familiarizzare con fasi a valle rispetto a quelle della mera
produzione e prima trasformazione del latte ovino; tipico esempio è costituito
dalle cosiddette “caciare”, in sostanza delle strutture decentrate di raccolta
e di salagione del formaggio che aveva subito una prima lavorazione da parte
degli stessi pastori; il prodotto finito veniva poi acquistato interamente
dagli industriali.
[18]
Storicamente è opportuno comunque sottolineare che un’intensa attività di
costituzione di “tancas” (cioè appezzamenti recintati con muretti a secco e di
proprietà privata) si registra nella zona del Monteacuto (cui appartiene anche
Pattada) e di Nule (paese che invece abbiamo inserito nella sub-regione su cui
insiste la Cooperativa “Sa Costera”) anche prima dell’introduzione del
cosiddetto Editto delle Chiudende (Regio editto del 6 ottobre 1820) (su questi
aspetti cfr. Bua, 1995). In sostanza, sempre storicamente, i comuni di confine
del Goceano con la sub-regione cui appartiene Pattada presentano interessanti
analogie che possono aver prodotto effetti di lungo periodo sulla delimitazione
dei confini del bacino latte della Cooperativa “Sa Costera”. Il Regio editto
citato (detto anche “feliciano”) fu introdotto dal re di Sardegna Carlo Felice
nel 1820 e diede corso ad un processo (peraltro più o meno intenso nelle varie
sub-regioni) di privatizzazione delle terre, segnando tra l’altro una lunga
stagione in cui: «(…) prepotenze ed angherie di ogni tipo» furono perpetrate
dai notabili locali i quali «(…) facevano un uso smodato ed illegale di
recintare le terre» (Bua, 1995, pp.291-292) «(…) a danno dei pastori e dei poveri
delle campagne» (La Marmora cit. in Le Lannou 1941, p.158, citazioni riferite
alla trad.it del 1979); per una disamina sulla situazione attuale dell’uso
collettivo della terra in Sardegna, cfr. Nuvoli (2000).
[19]
Continuando il confronto parallelo con la Cooperativa “La Concordia” notiamo
che nello stesso anno, il 1979, la Cooperativa di Pattada lavorò un numero
doppio di litri di latte, vale a dire ben 890.000 (Campus, 2001).
[20] Nel
periodo che stiamo considerando, infatti, la quantità di latte trasformato
cresce a tassi considerevoli; ricorrendo ai numeri indici (fatto pari a 100 il
quantitativo trasformato nel 1979) e ponendo tra parentesi l’anno di
riferimento, limitando l’attenzione al lasso di tempo 1979-1985 si ha la
seguente sequenza: 244 (1980); 96 (1981); 137 (1982); 224 (1983); 489 (1984);
631 (1985).
[21] Le
statistiche fornite dall’Ersat mostrano come il patrimonio ovino della
sub-regione sia pari a 101.723 capi, quello bovino pari a 10.219 e quello
caprino di circa 430 capi (La Nuova Sardegna, 5 novembre 1983).
[22] La
Cooperativa entra nel nucleo fondatore del Corsorzio, con sede a Macomer (NU),
il cui statuto, all’art.3, ricorda che tra le finalità istituzionali di tale cooperativa
di secondo grado rientra, tra l’altro, la commercializzazione, in Italia e
all’estero, dei prodotti delle cooperative aderenti; l’incremento, il
miglioramento e lo sviluppo della produzione lattiero-casearia delle associate;
la costruzione, se necessario, dei magazzini zonali, regionali e provinciali
per le operazioni di raccolta, stoccaggio, salagione, selezione e vendita dei
prodotti.
[23] Il
Consorzio Sardegna, pur costituito legalmente già dal 1966, inizia ad operare
effettivamente solamente a partire dal 1975 (Murtas, 1978).
[24] La
Cooperativa, in sostanza a partire da tale data non conferisce più le proprie
produzioni al Consorzio, similmente a quanto descritto da Vargas-Cetina (1993,
p.353), con riferimento alla Cooperativa casearia di Bardia (nome fittizio per
designare una località del nuorese), di cui al capitolo 10 di questo volume: «The
Bardia cooperative diary had opted out of the Macomer cooperative on its own,
without ever bothering to make official its de
facto disassociation».
[25] Complessivamente, non più
del 4% del fatturato può ascriversi a tale canale di distribuzione, inoltre,
può sorprendere che una realtà aziendale come la Cooperativa di Anela, possa
contare su di un solo punto vendita, soprattutto se si confrontano le dimensioni
produttive di tale azienda con quelle della Cooperativa di Onifai (già
descritta nel capitolo sesto di questo libro) che lavora latte in quantitativi
tre volte minori, ma possiede addirittura tre punti vendita. Le spiegazioni
sono da ricollegare oltre che a differenti traiettorie del portafoglio prodotti
di queste due aziende (nel caso di Onifai, la dipendenza dal Pecorino romano è
storicamente minore), anche alla localizzazione della Cooperativa di Onifai in
un’area contigua a località a vocazione turistica (come Orosei, per esempio),
da presidiare nei mesi estivi.
[26]
L’andamento dell’export di Pecorino romano di questi anni è il seguente (numeri
indici, ponendo 1984=100; tra parentesi l’anno di riferimento): 107 (1985); 104
(1986); 113 (1987); 118 (1988). Dal punto di vista produttivo, invece,
contestualmente si sono registrati i seguenti valori (numeri indici, annata
casearia 1984-85=100; tra parentesi l’annata di riferimento): 112 (1985-86);
124 (1986-87); 168 (1987-88); 143 (1988-89) (Fonte: Nostre elaborazioni su dati
del Consorzio di tutela del Pecorino romano).
[27]
L’Ara, Associazione regionale allevatori della Sardegna, mette a disposizione i
suoi veterinari, ai quali i soci corrispondono una quota commisurata al numero
di capi di bestiame.
[28] Il Consorzio Sardinian Coop
Direct, con sede legale a Nuoro ed amministrativa a Macomer (NU), si occupa
esclusivamente della vendita dei prodotti delle associate, che sono tutte
imprese cooperative. Tale Consorzio può essere inteso come una cooperativa di
secondo grado, in quanto è l’ultima unità del cosiddetto gruppo cooperativo, in
pratica, le aziende facenti parte di questo gruppo si caratterizzano per dar
vita ad una “catena di conferimenti”, che parte dai soci-allevatori che
conferiscono la loro produzione alla cooperativa, la quale subordina la remunerazione
del conferimento medesimo alla vendita del prodotto da parte del Consorzio stesso.
Al giugno del 2003, le cooperative che vi aderiscono sono 5 (oltre quella di
Anela, quelle di Bortigali, Carbonia, Guspini e Nuoro) per un totale di oltre
1300 allevatori; mediamente il fatturato registrato dal Consorzio si aggira
intorno ai 4,5 milioni di euro (L’Unione Sarda, 28 gennaio 2001).
[29] Il
Pecorino romano incide sul fatturato dell’impresa per l’88% nel 2000, l’89,7%
nel 2001 e l’87% nel 2002.
[30] Al
Consorzio Agriexport Sardegna, nato nel 1993, aderiscono attualmente 7
strutture cooperative; in un certo senso tale Consorzio rappresenta la
formalizzazione di accordi informali consolidatisi tra le cooperative aderenti
nel corso del tempo; in una prima fase della sua esistenza (1993-1997), il
Consorzio si è limitato a svolgere attività di coordinamento delle produzioni
delle cooperative consorziate, mentre, successivamente, oltre all’attività di
concentrazione delle produzioni casearie (in specie di Pecorino romano), al
fine di esercitare sui mercati un potere contrattuale maggiore, si riconoscono
iniziative volte a favorire la specializzazione produttiva delle singole realtà
cooperative in un contesto di maggiore diversificazione a livello di
portafoglio-prodotti dell’intero Consorzio. Nel 2000, tuttavia, circa il 90%
del formaggio commercializzato dal Consorzio era rappresentato ancora dal
Pecorino romano, con un fatturato a livello consortile di circa 70 milioni di
euro (pari a circa il 25-30% del fatturato dell’intero comparto caseario di
trasformazione del latte ovino) (Fonte: Consorzio Agriexport Sardegna).
[31] Un
contenitore equivale a 250 quintali di formaggio, ovvero mille forme di
formaggio.
[32]
Ricorrendo ai numeri indici, fatto pari a 100 il dato relativo al 1996 e dopo
aver attualizzato i valori di bilancio secondo i coefficienti Istat aggiornati
al mese di ottobre del 2003, la sequenza dei fatturati registrati dalla
Cooperativa “Sa Costera” nel periodo 1996-2000 è la seguente (tra parentesi
l’anno di riferimento): 100 (1996), 155 (1997), 86 (1998), 100 (1999), 127
(2000), 108 (2001), 89 (2002). Le evidenti flessioni registrate nel corso del
1998 e del 2002 sono ascrivibili, in parte, al pieno manifestarsi degli effetti
del taglio dei sussidi all’export (si pensi che dal luglio del 1995 al giugno
del 1997, la restituzione comunitaria è passata da 4.800 a 1394 lire), in
parte, tale andamento è collegato ad una contrazione di rilievo della quantità
di latte trasformato dalla Cooperativa (a causa di una cattiva annata di
lattazione, ma anche per via della defezione, nel 1997, di un certo numero di
soci come descritto più avanti).
[33] Il
numero di soci è pari a 359 nel 2001 e a 386 nel 2002.
[34] Per
il vero, le positive annate di raccolta del latte, a partire dal 1999-2000 (con
l’eccezione della campagna 2001-2002), sono tali da più che compensare la
perdita di materia prima ascrivibile alla defezione di questi soci conferitori.
[35]
Pare che l’episodio abbia avuto origine in seguito alla mancata elezione di un
candidato alla presidenza, sfociata appunto nella defezione degli allevatori
(quasi tutti di Nule e di Benetutti) che lo sostenevano (L’Unione Sarda, 24
dicembre 1996).
[36]
Benham e Keefer (1991) hanno inoltre posto di recente in relazione il grado di
eterogeneità della base sociale delle cooperative con la lentezza e la
onerosità dei processi decisionali d’impresa. Alesina e La Ferrara (2000), più
in generale, mostrano come il grado di partecipazione alle attività sociali all’interno
delle comunità sia influenzato dal grado di eterogeneità (sotto differenti
profili) delle stesse.
[37]
Fermi restando i problemi di agenzia che comunque affliggono i rapporti tra
base sociale e management e già descritti nel capitolo secondo del volume.
[38] I
dati diffusi dall’Ara per le aziende zootecniche conferenti materia prima nella
Cooperativa di Anela evidenziano che: il 30% del totale è dotato di energia
elettrica, il 24% di acqua potabile, il 71% di ricoveri razionali per il
bestiame, il 50% di mungitrice e il 45% di tanks refrigerati. Uno studio di
qualche tempo fa di Idda e Nuvoli (1981) poneva una relazione negativa tra il
grado di modernità della conduzione dell’azienda zootecnica e l’età
dell’allevatore a capo della stessa azienda.
[39] È interessante
notare che in letteratura (Hansmann, 1996; Holmström, 1999) l’esistenza stessa
delle cooperative è stata “giustificata” in contesti in cui le opzioni di exit
di agenti portatori di input specifici erano limitate o, al limite, nulle.
[40] Con
riferimento alle cooperative, Eschenburg (1994, p.884) analizza i molteplici
effetti sulla condotta del management connessi sia all’opzione “exit” che a
quella “voice”. Tale autore, tuttavia, analizza anche i possibili significati
di atteggiamenti “non-exit” e “non-voice”, i quali, comunque, possono
“mascherare” situazioni di malcontento della base sociale.
[41] Il
quantitativo di materia prima trasformata, oscillante, a partire dal 1987, tra
i 5,5 e i 6,5 milioni di latte ovino, rappresenta un valore ragguardevole, sia
se confrontato con la media delle cooperative casearie regionali che con quella
delle imprese capitalistiche del settore. I dati riportati in Nuvoli et al. (1999), riferiti al 1996,
evidenziano una quantità annua mediamente trasformata dalle cooperative di 3,18
milioni di litri, mentre, le imprese capitalistiche mostrano valori prossimi a
4,53 milioni.
[42] Lo
schema utilizzato è adattato da Idda e Nuvoli (1981, p.216).
[43] Sul
finire degli anni Ottanta, De Castro (1989, p.207) segnalava un coefficiente di
utilizzazione medio per le cooperative casearie della Sardegna intorno al 60%.
[44] Tale
opzione ha anche ripercussioni in termini di incidenza del costo di trasporto
per litro di latte. Pur non esistendo una letteratura al riguardo, gli elementi
raccolti nella stesura del volume portano a pensare ad una notevole
“sensibilità” delle cooperative casearie rispetto al tema dell’incidenza del
costo del trasporto per litro di materia prima trasformata, che tenderebbe de facto ad “irrigidire” i confini del
bacino latte di tali imprese. Ayora-Diaz (1993, pp.177-178) descrive come i
soci conferitori di una cooperativa casearia vennero, nel 1992, esclusi di
fatto dalla possibilità di conferimento perché operanti in una sub-regione
geograficamente distante, a causa della eccessiva incidenza del costo del
trasporto del latte da quelle località, con mezzi sociali. In un’intervista
condotta ai responsabili di un’importante impresa capitalistica casearia,
invece, si dichiara che: «(…) noi andiamo a prendere il latte anche quando i
conferenti dispongono di pochissimo latte (…) in pratica, i camion fanno tanti
chilometri per pochi (in proporzione) litri di latte» (intervista al direttore
produzione della Sardaformaggi s.p.a. cit. in Nieddu, 2002). È ovvio che, in
contesti, sempre più diffusi, di riduzione delle quantità di latte ovino destinate
all’autoconsumo dell’allevatore e della sua famiglia, la fornitura del servizio
di raccolta per un più lungo periodo di tempo può rappresentare un importante
elemento discriminante nella decisione di conferimento. Dal punto di vista
dell’economia dell’impresa cooperativa, del resto, si tratterebbe di stimare la
somma algebrica di una serie di “componenti economiche” di segno opposto. In
termini “positivi”, possiamo ricordare senz’altro: l’incremento di materia
prima da trasformare, con una conseguente migliore saturazione degli impianti
produttivi ed una riduzione del costo di trasformazione per litro di latte;
l’instaurazione di relazioni di lungo periodo con componenti della base sociale,
distanti dal baricentro geografico della cooperativa, con evidenti riflessi in
termini di attenuazione di comportamenti opportunistici da parte
dell’allevatore e probabile innalzamento della qualità del latte conferito.
Sotto il profilo negativo: la già ricordata presumibile iniezione di
eterogeneità all’interno della base sociale, con tutte le ripercussioni sui
processi decisionale dell’impresa cooperativa; la maggiore incidenza del costo
di trasporto per litro di latte, che si tradurrebbe, ceteris paribus, in una
riduzione della remunerazione della materia prima, e che rappresenterebbe il
“contributo” (unitario) gravante su ciascun membro della base sociale a causa
dell’ingresso del socio “distante” dal punto di vista logistico. In effetti,
anche in letteratura (Nilsson, 1996, p.114) si discute sull’opportunità di una
politica di neutralità della distanza (neutrality
distance): «Members who live close to the cooperative’s plants are paying
for members who living far away. There are cases (in Sweden) in which collecting the milk from a remote
dairy farmer costs more than double the price it yields». La dimensione
geografica del bacino latte, “misurata” in termini di costo di trasporto per
unità di materia prima, è così rilevante ed accettata dalle cooperative
casearie sarde, tanto da tollerarsi, in taluni casi, de facto, la possibilità per un allevatore che disponga di
allevamenti in zone abbastanza distanti tra loro, di conferire contestualmente
all’impianto cooperativo e ad un’altra realtà produttiva (anche di tipo
capitalistico).
[45] I
dati dell’Ara evidenziano nella sub-regione in questione una dimensione media
dell’azienda zootecnica che si aggira intorno ai 220 capi ovini.
[46]
Attualmente la Cooperativa impone ai soci-conferitori rigidi controlli igienico-sanitari svolti da un laboratorio di analisi
dell’Ara. Tali controlli sono a campione ed effettuati senza preavviso. Tale
contesto dovrebbe indurre il pastore ad avere una maggiore cura nei confronti
del proprio prodotto la cui retribuzione è direttamente proporzionale al grado
di pulizia e sanità riscontrato durante i controlli. L’eventuale rifiuto da
parte dell’allevatore di far compiere all’incaricato dell’Ara le analisi del
prodotto o i prelievi dei campioni è punito con le sanzioni stabilite dal
Regolamento interno. In particolare il Regolamento interno prevede sanzioni per
i soci che non curano l’igiene del prodotto o che apportano adulterazioni. In
quest’ultimo caso, alla terza infrazione, il Consiglio di amministrazione della
Cooperativa delibera automaticamente l’esclusione del socio recidivo, al quale
verrà comminata, in aggiunta, una penale e non verrà computato il latte
conferito nei trenta giorni precedenti. È chiaro comunque che un atteggiamento sanzionatorio è solamente il primo
passo verso una “cultura” della qualità della materia prima conferita.